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11 Settembre: CIA - MOSSAD

07/09/2011 - 10:18 - 11 settembre: dieci anni dopo siamo ancora nella notte

di Franco Cardini

Dieci anni non sono che un batter di ciglia dinanzi all’Eternità. Ma sono molti nella vita di una persona e possono significare molto nella storia. Nel 1804 Napoleone veniva incoronato imperatore in Notre Dame – che dieci anni prima, nel 1794, era stata trasformata in tempio della Dea Ragione –, e dieci anni dopo, a Fontainebleau, abdicava per ritirarsi all’isola d’Elba. Nel 1907, gli imperi russo e britannico, con l’assenso del sultano, e dei Kaiser di Austrungheria e di Germania, firmavano un patto per la spartizione del territorio persiano; dieci anni più tardi, nel fatidico e terribile 1917, l’impero czarista veniva cancellato mentre dei suoi quattro colleghi imperatori europei (il sultano compreso) di lì a un anno soltanto Giorgio V d’Inghilterra sarebbe rimasto sul trono.

Dieci anni fa assistemmo atterriti al crollo delle «Due Torri» di Manhattan e venimmo di lì a poco a sapere che quel terribile episodio era solo una parte, sia pure la più importante, di uno scenario terroristico che aveva seminato distruzione anche a Washington e nei cieli di Pennsylvania.

Nine/Eleventh, Ground Zero, War against Terror. Espressioni ormai divenute familiari, che per qualcuno suonano forse a questo punto come slogans pubblicitari o spots televisivi, roba da film di Hollywood e da telegiornale quotidiano. Un po’ di morti ogni giorno in Iraq, in Israele, nei territori palestinesi, in Afghanistan: come in Africa o in America latina, del resto. Chi ci fa più caso? Ci si abitua a tutto. Anche alle tragedie. Specie quando si ha la sensazione che non ci riguardino, che siano i soliti materiali della solita fiction.

Eppure, non è così. Si dice che dall’11 settembre del 2001 sia cominciata una nuova fase storica. Aperta, come sovente accade per le fasi storiche, da una nuova guerra. Quella «contro il Terrore», che riguarda anche noi, e nella quale anche noi siamo stati e restiamo coinvolti. Nel nostro Bel Paese, qui tra noialtri Italiani Brava Gente, ci sono ormai decine di famiglie che piangono il loro ragazzo rimasto là, in Irak o in Afghanistan, tra sabbie e rocce d’un paese lontano o sul cemento ardente e crepato d’una città-fantasma, tra le macerie e i rifiuti. «Caduti», si deve dire: non morti che è generico, e nemmeno vittime ch’è parola la quale suggerisce innocenza e passività. No. Erano soldati. I soldati cadono, cioè muoiono perché ciò fa parte del loro dovere: «La morte è un atto di servizio», diceva José Antonio Primo de Rivera, questo meraviglioso guerriero cristiano che ci credeva sul serio, e lo dimostrò appunto cadendo. I soldati muoiono, però, anche per qualcosa. Per che cosa, in questo caso?

Erano più di sessant’anni che – a parte qualche caso isolato, in Congo o in Somalia – l’esercito italiano non aveva più caduti; che madri, sorelle, fidanzate, mogli non piangevano più un ragazzo in divisa che non sarebbe mai tornato. «Caduti», certo: onore alla loro memoria. Ma caduti perché, per chi, per che cosa? Per la Patria, per la Libertà, per la Civiltà occidentale, per la Pace nel mondo, per gli Interessi nazionali, per gli interessi di qualcun altro, per la nostra sicurezza, per la sicurezza altrui, per le lobbies produttrici di armi (non dimentichiamo che l’Italia è al decimo posto nel mondo tra i paesi esportatori di tali merci), per il petrolio, per che cosa?

Undici settembre. Ormai si dice così, come si dice Venticinque Aprile e Primo Maggio. Una data entrata nella storia. Ma che cos’è davvero successo quel giorno? E che cos’è davvero cambiato, da allora?

La risposte alla prima domanda non sono così semplici come certi politici e certi giornalisti si ostinano a credere o a volerci far credere. Quattro anni fa fecero un certo rumore, uscendo in contemporanea nelle sale cinematografiche e nelle librerie, un film coordinato dal gruppo «Progetto Megachip» e un libro edito dall’Editrice Piemme e coordinato da Giulietto Chiesa e da Roberto Vignoli. Il titolo del libro e del film era lo stesso, lapidario, inquietante: Zero. Zero come il Ground Zero, la tragica spianata che oggi a Manhattan sta là dove prima sorgevano le due torri del CTO e altri edifici adiacenti. Zero come le certezze che ancor oggi sappiamo di possedere circa le responsabilità di quel tremendo 11 settembre del 2001, troppo presto proclamate con frettolosa sicumera e quindi oggetto di contestazioni e di polemiche a non finire: e non da parte dei soliti noiosi «negazionisti», ma soprattutto delle famiglie delle vittime, per nulla soddisfatte del trattamento che il governo statunitense ha loro riservato, né convinte dei risultati delle inchieste ufficiali e delle contraddittorie e lacunose versione dei fatti che esse hanno fornito, né rassegnate a chiudere il caso (che, ricordiamolo, ha dato luogo a una sola condanna all’ergastolo di un solo presunto responsabile in seguito a un giudizio a dir poco precipitoso). Vero è che si sono ammessi errori, forme d’incompetenza, omissioni, casi d’inefficienza: troppo poco per convincerci che dietro all’arrogante reticenza delle autorità non ci sia qualcosa di più, e di peggio.

Non è certo il caso di far del complottismo: Dio ce ne guardi. Semmai, si tratta proprio, al contrario, di smascherare l’ipotesi appunto complottistica travestita da realtà proclamata ai quattro venti mai però comprovata sulla base della quale, nel giro di meno di un mese, il governo Bush dichiarò di aver individuato con certezza responsabili materiali e mandanti e avviò la Strafexpedition contro l’Afghanistan dei talibani rei di non volergli consegnare il presunto Grande Capo del complotto, Usama bin Laden. Poiché questo è un paese dalla cortissima memoria, sarà utile forse ricordare che la colpevolezza di Bin Laden – il quale è intanto scomparso in circostanze a dir poco strane e frettolose, ma senza che la sua morte abbia diradato il mistero della sua responsabilità – è fino ad oggi stata provata solo attraverso dichiarazioni da lui stesso fornite, attraverso videocassette di dubbia origine e di ancor più dubbia attendibilità. Una delle quali anzi, ritrovata in Afghanistan nel dicembre del 2001 e ritenuta fondamentale e decisiva, fu poi dimostrata falsa. E Bush, sia pur con reticenza, dovette ammetterne la falsità. L’allora presidente aveva promesso di far assoluta chiarezza e di provvedere a sostanziosi risarcimenti alle famiglie delle vittime: non lo ha fatto. I processi ai sospetti continuano a porte chiuse, condotti dalle autorità militari, mentre quel mostro giuridico che è il carcere di Guantanamo continua a star aperto e, nella più grande democrazia del mondo, il nuovo presidente Obama non è riuscito a garantire quella trasparenza e completezza di notizie la mancanza delle quali aveva pur rimproverato al suo predecessore e da parte sua promesso se fosse stato eletto.

Che cosa pensare, dunque? Forse qualcuno di voi ricorderà un’«esternazione» dell’ex Presidente della repubblica e senatore a vita Francesco Cossiga apparsa fugacemente sul «Corriere della Sera» del 30 novembre 2007 e quindi passata a un «lancio d’agenzia» Ansa prima di venir completamente oscurata. Parlando di audiocassetta attribuita a Usama bin Laden, quella diffusa il 22 ottobre di quell’anno stesso in cui si formulavano minacce anche a Silvio Berlusconi, Cossiga affermava che si sarebbe trattato nientemeno che di «un videomontaggio realizzato negli studi di Mediaset a Milano e fatto giungere alla rete televisiva islamista Al Jazeera che lo ha ampiamente diffuso»: il tutto per «sollevare un’ondata di solidarietà verso Berlusconi, nel momento nel quale si trova in difficoltà». Quanto all’11 settembre in sé e per sé, Cossiga affermava tranquillamente e candidamente: «...tutti gli ambienti democratici d’America e d’Europa, con in prima linea quelli del centrosinistra italiano, sanno ormai bene che il disastroso attentato è stato pianificato e realizzato dalla CIA americana e dal Mossad (servizio segreto di Israele) con l’aiuto del mondo sionista per mettere sotto accusa i paesi arabi e per indurre le potenze occidentali ad intervenire sia in Iraq, sia in Afghanistan». Accuse gravissime, che avrebbero dovuto essere immediatamente smentite oltre ogni possibile dubbio. Furono solo oscurate.

Quanto alla seconda domanda, si dice che da allora sia iniziata una nuova storia. È un fatto che, all’indomani dell’11 settembre, il governo Bush avviò una fase della strategia statunitense nel Vicino e Medio Oriente caratterizzata da una forte aggressività, che ci ha regalato due guerre (l’Afghanistan dal 2001 e l’Iraq dal 2003) ancora in corso, non ha risolto il problema del terrorismo che diceva di voler battere, non ha resi più sicuri né il nostro Occidente, non ha risolto il problema israelo-palestinese ch’è la vera «spina infettiva» di tutta l’instabilità vicinorientale e – tre anni dopo la vittoria elettorale di Obama, che aveva promesso solennemente al suo popolo di uscire dalla spirale di quelle due assurde guerre – rischia di ulteriormente dilagare.

I nuovi pericoli di escalation provengono dagli sviluppi di quel fenomeno che ai primi di quest’anno, quando si è prodotto, è stato definito «primavera araba», «risveglio arabo»: definizioni affrettate ed emozionali, della quali si è poi appropriata una non innocente propaganda. Parlare di «processo di occidentalizzazione» di quel mondo, e in generale di tutto quello musulmano, ma esprimersi in tali termini implica l’ignoranza della storia: in realtà, tale processo è cominciato alla fine del XVIII secolo e non si è mai arrestato, anche se si tratta di un processo articolato e contraddittorio, segnato da battute d’arresto e inversioni di tendenza. Quanto al desiderio di democratizzazione, un altro elemento segnalato dai media, bisogna tener presente che gli arabi e i musulmani (sto pensando soprattutto a turchi e iraniani) conoscono il nostro cosiddetto «Occidente» di gran lunga meglio di quanto noi non conosciamo loro: e non sono pochi quelli fra loro che, pur non essendo né dei «fanatici» né dei «fondamentalisti», sono molto prevenuti contro i processi degenerativi della nostra «democrazia avanzata», sempre più incline all’oligarchismo e tendente a ridurre gli spazi ai liberi processi elettivi e nella quale il ceto politico è sempre più funzionale alle lobbies finanziario-economico-tecnologiche e loro «comitato d’affari».

Quanto infine al movimento iniziato ai primi dell’anno presente, non si può generalizzare: nato come espressione di disagio (la crisi e il processo di generale impoverimento parallelo alla concentrazione élitaria della ricchezza si avvertono anche là), esso si è rivolto anzitutto e soprattutto contro regimi che univano repressione a corruzione, come nel caso del tunisino Ben Ali e dell’egiziano Mubarak, ma anche contro i governi algerino, yemenita e arabo-saudita. Si trattava e si tratta di regimi tutti buoni amici degli USA e dei paesi della NATO, cioè dell’«Occidente» politicamente inteso. La risposta, abile quanto spietata, non si è fatta attendere: interpretazione mediatica del movimento come «voglia di democrazia», scatenamento anglofrancese (attraverso l’appoggio fornito ai dissidenti cirenaici di Gheddafi) della crisi libica resa necessaria da quando il colonnello aveva annunziato le sue intenzioni di rafforzare i rapporti con Russia e Cina, «sparizione» dal campo delle informazioni mediatiche di qualunque notizia riguardante agitazioni in Algeria, Marocco, Arabia Saudita, Giordania, Yemen, Bahrein e ipertrofizzazione del «caso» siriano.

Non si può escludere che si tratti di una ripresa su larga scala del programma statunitense dei neocons che condusse tra 2001 e 2003 alle aggressioni contro Afghanistan e Iraq: senonché, in tempi di crisi degli USA (il 10% della popolazione statunitense sotto il livello minimo di sopravvivenza economica) e di «multilateralismo», ora l’offensiva è guidata da Francia e Inghilterra. Ma gli ambienti statunitensi che a suo tempo collaborarono all’affermazione di Bush e contribuirono quindi alla sua politica aggressiva sono di recente tornati ad essere virulenti.

Nel Mediterraneo, come nell’area caucasica, è da alcuni anni in atto un durissimo duello tra USA e NATO da una parte, Russia dall’altra. La questione non riguarda solo il petrolio o, come si ama definirla, la «sicurezza d’Israele» preoccupata per l’appoggio siriano a Hezbollah in Libano e ad Hamas in Palestina. Qui siamo in piena problematica strategica e geopolitica che va oltre i limiti mediorientali.

Secondo Vladislav Gulevitsch, autorevole analista del sito russo Strategic Culture Foundation, il punto è che la Russia mantiene a Tartus in Siria la sua unica base navale in Mediterraneo. È vero che «mediterranea» si potrebbe definire anche quella di Sebastopoli in Ucraina, sul Mar Nero, che tuttavia il governo di quel paese, passato al fronte antirusso, fa di tutto per obbligarla a smantellare: mentre un avvicinamento di Gheddafi all’asse iraniano-russo avrebbe potuto condurre come conseguenza anche all’apertura di una base navale siriana sulla costa libica, ragione questa secondaria forse ma non ultimissima che ha indotto alla cacciata del rais.

La riluttanza iniziale di Obama a partecipare alla fase libica della (non si riesce a capire se e quanto spontanea) «primavera araba», e addirittura i malumori di Netanyahu per la caduta di Mubarak e dello stesso Gheddafi, che con Israele avevano rapporti stabili, farebbero pensare quasi a una nuova fase di offensiva neocon, visto che personaggi di punta di tale ambiente – come John Mc Cain e Philip Zelikow (a suo tempo uno dei principali affossatori dell’inchiesta relativa all’11 settembre 2001, svanita di fatto nel nulla) – si sono detti certi ed entusiasti fautori della prospettiva dell’escalation Gheddafi-Assad-Ahmadinejad: proseguire l’offensiva libica passando alla Siria per giungere infine ad attaccare l’Iran. Se le elezioni presidenziali del 2012 fossero sfavorevoli a Obama, potremmo trovarci di nuovo in una fase di delirio neoconservatore e di guerre sconsiderate, paragonabile a quello che tra 2001 e 2003 provocò le esiziali avventure afghana e irakena. La sconfitta di Obama coinciderebbe probabilmente con un ritorno «alla grande» – che Dio non voglia – dei neoconservatives e delle loro folli teorie neotrotszkiste sull’interesse nazionale americano e il bisogno di modellare il mondo sulla misura di esso.

A questo punto è, adesso e per adesso, la nostra notte.

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