“Io ti ho glorificato sulla terra
avendo compiuto l’opera che mi hai affidato;
e ora tu, Padre, glorificami presso te stesso
con la gloria che avevo presso di te
prima che il mondo fosse”[1].
Vangelo di Giovanni 17, 4 – 5.
L’espressione Figlio dell’Uomo è la traduzione letterale della forma ebraica Ben ’Adam, la stessa che appare nei Vangeli[2] dove viene utilizzata a più riprese da Gesù per definire se stesso unitamente alla propria missione. Benché nella lingua ebraica tale espressione sia una perifrasi d’uso comune che ha il senso di essere umano, uomo[3], con la proclamazione dell’euaggelion essa viene ad assumere grande rilevanza nello svelare dei precisi aspetti riguardanti la discesa del Cristo in terra[4].
Ma quali sono i significati che bisogna attribuirle[5]?
Il Rabbi evangelico, definendosi Figlio dell’Uomo, non intende certo dirsi figlio dell’Adamo decaduto dopo l’espulsione dal giardino edenico, con ciò infatti negherebbe il carattere salvifico della sua venuta. Sappiamo invece che il Figlio si attribuisce un’anteriorità assoluta, avendo la sua filiazione preceduto l’intera manifestazione; a ciò si allude con affermazioni come “Vedevo Satana come folgore cadere dal cielo”[6] e in generale ne è conferma l’origine dal Principio Supremo, il “Padre”, alla quale il Figlio dell’Uomo[7] rimanda con particolare insistenza nel Vangelo giovanneo. Deve dunque trattarsi di un’allusione ad un Uomo dalla sostanza spirituale il quale, per portare a conoscenza degli uomini[8] i misteri del “Regno di Dio”, si è incarnato ed è apparso sulla terra sotto sembianze umane[9]. Inoltre nei Vangeli viene svelata la necessità che quest’Uomo si offra in sacrificio per poi risorgere alla vita eterna affinché vengano mostrati i limiti di quel mondo terrestre nel quale si è concretizzata, seppur illusoriamente, quell’inversione della gerarchia universale a causa della quale l’angelo decaduto, Satana, viene chiamato “principe di questo mondo”.
Ad ogni modo, per quanto possiamo provare a comprendere la misteriosa espressione Figlio dell’Uomo semplicemente secondo quanto leggiamo nei Vangeli, dobbiamo anche tenere in considerazione che quanto detto sopra differisce da certe interpretazioni cattoliche e da quelle comunemente accettate dalla cultura occidentale.
San Tommaso D’Aquino nella Summa specifica infatti: “La filiazione temporale per cui Cristo è detto Figlio dell’uomo non costituisce la sua persona alla maniera della filiazione eterna, ma è una conseguenza della nascita temporale... [10].
Ciò che qui ci si limita a prendere in considerazione è il fatto che San Tommaso interpreti la definizione Figlio dell’Uomo come relativa alla “nascita temporale” del Figlio evangelico. A tal proposito, se si può ammettere che essa nella sua ricchezza di significati voglia anche riferirsi all’Uomo di origine divina[11] nel suo manifestarsi in terra[12], non va allo stesso tempo dimenticato che, nei Vangeli, non si parla del Figlio dell’Uomo necessariamente in relazione all’apparizione umana del Cristo[13] e che pertanto la concezione personale del Figlio dell’Uomo quale proiezione umanizzata di Dio in terra risulta essere riduttiva. Secondo le stesse parole di Gesù difatti “il Padre è nei cieli”, formula con la quale si esplicita proprio come il Principio Supremo non possa essere, in Sé, delimitato in alcun modo ad una qualsivoglia forma – sia essa fisica, psichica o concettuale[14] – mentre il carattere dello stesso Cristo, filiazione del Principio Supremo, è di natura prettamente spirituale ma, in vista della salvezza dei “figli della luce” che rischiano di andare smarriti nel cosmo, si è resa necessaria la sua incarnazione, il suo sacrificio e la sua risurrezione.
Una corretta meditazione sulla simbologia del corpo di cui Gesù fa uso in diversi luoghi dei Vangeli può certo concorrere a chiarire la difficile questione della filiazione del Cristo dal Principio Supremo che, in occidente, è venuta a porsi nei termini dell’incarnazione di Dio in Gesù. Un valido spunto a tal proposito è quello fornito dal sesto capitolo del Vangelo di San Giovanni che, proprio circa la simbologia corporale e del carattere salvifico di Cristo, è di cruciale importanza.
In esso, presentandosi come “il pane disceso dal cielo”, il Rabbi crea una scissione nel gruppo dei suoi discepoli. Alcuni, sconcertati dalla durezza del suo insegnamento, decidono di non seguirlo più[15], altri invece, San Pietro in testa, comprendendo con fiducia i suoi accenni alla vita eterna, non lo abbandonano. Vi apprendiamo inoltre che a tale vita illimitata si accede a condizione di consumare la carne e il sangue di Cristo, infatti “se uno mangia da questo pane vivrà in eterno”[16], mentre la manna che i giudei mangiarono nel deserto[17] e lo stesso pane moltiplicato dei miracoli non preservano dalla morte[18].
Ma di tale linguaggio vanno compresi i termini.
Alcuni lo prendono alla lettera[19], mentre altri tra i discepoli ne rimangono persino scandalizzati, difatti: “Gesù, avendo capito in se stesso che i suoi discepoli mormoravano a proposito di questo, disse loro: Questo vi scandalizza? Se dunque vedeste il Figlio dell’Uomo ascendere dove era prima? Lo Spirito è quello che vivifica, la carne non giova a nulla. Le parole che vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma ci sono alcuni tra voi che non credono”[20]. È evidente dunque che non si tratta qui di carne e sangue in un senso esclusivamente letterale e umano del termine, perché “La carne non giova a nulla”. Gesù per mezzo del simbolo della carne intende invece alludere allo Spirito che, grazie alla discesa del Figlio, si è reso presente nel mondo; mentre per mezzo dell’immagine del sangue, “vera bevanda”, accenna all’opera vivificante dello Spirito che permette ad un essere di entrare in comunione con il Figlio dell’Uomo e venire quindi reintegrato in quello stato primordiale che è a sua volta l’imperituro “Regno dei Cieli”.
Dietro all’apparente dualità costituita dal sacrificio e dall’opera vivificante di Cristo, si può riconoscere, da una parte, la disgregazione dell’Uomo Primigenio – “Figlio di Dio” – grazie alla quale l’intera manifestazione può dispiegarsi e, dall’altra, il riassorbimento nello stato originario di quella componente spirituale che, frammentata nella dimensione materializzata, in assenza di un intervento trascendente, non potrebbe che andare perduta[21]. In tal senso la reintegrazione che il Cristo opera in seno all’universo ha lo scopo di riportare ogni cosa all’incorrotto stato primordiale, quando non si era ancora verificata l’enigmatica caduta[22] a causa della quale si sono prodotte le realtà esteriori che, in quanto tali, si sono allontanate dalla perfezione iniziale[23].
La missione affidata al Cristo, la redenzione universale e la restaurazione della condizione originale, viene pertanto a scongiurare la possibilità che la componente spirituale esiliata nelle realtà esteriori, una volta che queste si siano dileguate, non abbia riconosciuto la natura della sua origine[24]. Per tale ragione, nonostante nei Vangeli venga riconosciuta alla realtà terrestre e cosmica una sua specifica ragione di esistenza[25], vi viene anche costantemente ribadito come l’unico elemento propriamente insostituibile sia quello spirituale e che coloro che non lo maturano in sé non possono che ridurre il proprio essere alla parte destinata ad essere dissolta[26].
Ciò che il Figlio dell’Uomo viene dunque a proclamarsi è un Uomo eterno – uno spirituale e primordiale Adamo[27], potremmo dire – che fin dall’origine ebbe in dote la pienezza dei suoi attributi e un’ispirata e interiore bellezza, libero da ogni caduta e decadimento, in Unità con il suo proprio Principio, nonostante tale Principio Supremo, in Sé, sia più grande di ogni concepibile realtà[28].
Di fatto, secondo quanto andiamo leggendo nei Vangeli, la nostra realizzazione spirituale è più legata alla memoria – alla memoria di tale Uomo eterno e dello stato di primordiale perfezione – che non al pensiero o alla speculazione: la viva memoria della nostra origine infatti vale molto più in termini spirituali di ogni trascendente teoria[29].
Per quanto l’essere umano si sforzi dunque di sostituire tale componente originale, l’unica che “né tignola, né ruggine deturpa”, con una sempre più multiforme illusione, limitando la propria prospettiva all’inversione della gerarchia universale propria della dimensione mondana[30], una tale sostituzione non sarà mai effettivamente attuabile. Cosa, quest’ultima, che è già del tutto evidente per coloro che abbiano inteso seppure in minima parte il messaggio evangelico e che sarà sancita con il suo definitivo compimento.
Gianfranco Strazzanti
Barrafranca, Enna, primavera 2014
Zejtun, Malta, Aprile 2017
NOTE
[1] Per le citazioni dai Vangeli sono state riportate le traduzioni italiane poste sotto l’originale greco nell’edizione interlineare del Nuovo Testamento, greco, latino, italiano delle Edizioni San Paolo (Cinisello Balsamo, MI, 1991. Sesta edizione, 2010). Tali traduzioni, relative ai singoli vocaboli, sono state armonizzate secondo i modi espressivi proprî della lingua italiana nella maniera meno artificiosa possibile.
[2] ὑιός του ἀνθρὸπου (Huiòs tou anthròpou), nei testi originali in greco.
[3] Per quanto il corrispettivo aramaico Bar ‘enasha abbia il medesimo valore di perifrasi, non va dimenticato che, soprattutto dalla scoperta dei manoscritti di Qumran, la possibilità che la lingua in cui ci si esprimeva al tempo del Secondo Tempio in Israele fosse l’aramaico è stata da più parti messa in discussione.
[4] Già nell’Antico Testamento, com’è noto, la si ritrova in relazione alla venuta del Messiah. Si veda in particolare Daniele 7, 13 – 14.
[5] Con il fine di rispondere a tale quesito, nonché di fornire delle conferme alle risposte suggerite, verranno annotate, quando se ne presenterà l’occasione, le affinità esistenti tra la rivelazione evangelica e alcune intuizioni delle scuole mistiche ebraiche: il fatto che la comparsa di queste ultime sia cronologicamente posteriore alla predicazione di Gesù non diminuisce certo il valore di tali affinità, esse permettono anzi di chiarire importanti aspetti legati alla figura del Messiah rimanendo nell’ambito della tradizione spirituale ebraica. Con questo non si vuole certo insabbiare il fatto che a volte le stesse scuole mistiche ebraiche, e con esse i loro testi, abbiano apertamente avversato tanto Gesù quanto i cristiani: ma anche questo fattore, si può ben dire, non potrà che rendere ancora più rilevanti i contenuti comuni. Si tratta sicuramente di un argomento che meriterebbe di essere meglio trattato e approfondito di quanto chi scrive possa permettersi qui di fare.
[6] Luca 10, 18. Si veda anche l’enigmatica proclamazione di Giovanni 8, 58.
[7] Tutte le volte che si troverà questa forma riportata alla lettera in quanto riferita alle traduzioni canoniche del Nuovo Testamento, si tenga sempre presente che si tratta di una circonlocuzione semitica che significa sinteticamente l’Uomo. Non è inoltre superfluo ricordare che il termine Adam condivide la propria radice etimologica con Edom, il colore rosso, con Dam, il sangue e con Adamah, l’argilla rossa (in relazione a quest’ultima etimologia si veda Genesi 2, 7).
[8] L’annuncio evangelico è in realtà rivolto innanzi tutto al popolo di Israele, per quanto anche gli altri popoli ne possano beneficiare (Si veda Giovanni 10, 16, ma soprattutto Matteo 10, 6 e 15, 24).
[9] Ecco infatti quanto si legge in Giovanni 1, 14 : “E la parola carne divenne e pose la tenda tra noi e contemplammo la gloria di lui, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità”.
[10] Summa Theologiae, Parte III, Arg. 3, Art. 5. La precisazione di San Tommaso intende chiarire come l’incarnazione di Cristo non comprometta l’identità delle Persone della Trinità e, con ciò, la natura del Dogma per il quale le Tre Persone sono inscindibili. È evidente come la sua prospettiva sia diversa da quella del presente scritto, pertanto qui non si mira certo alla confutazione delle tesi sostenute nella Summa le quali, nell’ambito religioso, sono perfettamente legittime.
[11] Tale Uomo viene definito dalla mistica ebraica ’Adam Qadmòn, cioè Uomo Primigenio (ma anche Superno, Superiore, Originario), definizione questa per nulla estranea al Vangelo se considerata alla luce di quanto Gesù dice di se stesso relativamente alla sua filiazione dal Principio Supremo.
[12] In merito alla nascita temporale propriamente detta, si ricordi invece come Gesù la sconfessi diverse volte tenendo in conto solo quella spirituale (Si veda a questo proposito il dialogo con Nicodemo nel terzo capitolo del Vangelo di Giovanni, ma anche Matteo 12, 48).
[13] Cosa che si ricava ad esempio dalla seguente profezia: “Come il fulmine esce da oriente e brilla fino ad occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’Uomo” (Matteo 24, 27). Questo detto, relativo alla Parusìa finale, rimanda infatti all’avvento di un’era, l’era messianica per l’appunto, in cui la dimensione prettamente terrena e umana non avrà più alcuna ragione d’essere, ma non per questo il Cristo smetterà di essere Figlio dell’Uomo, ovvero l’Uomo in quanto essere spirituale, totalmente integro nelle sue qualità e attributi divini. Proprio a conferma di ciò, ovvero a conferma del fatto che con la fine dell’eone si avrà la consumazione di ogni realtà esteriore, subito dopo Gesù aggiunge: “Dove sarà il cadavere lì si raduneranno gli avvoltoi”. Si noti a proposito di questo detto la perfetta sintonia tra le parole di Gesù e il modo in cui la mistica ebraica intende il Tiqqùn, ovvero la restaurazione dell’onnipresenza divina, e cioè dello stato primordiale che precede il dispiegamento dell’universo.
[14] L’unica forma tramite la quale il Principio Supremo si rende conoscibile nel mondo manifesto è in realtà il Santo Nome di Dio. Tanto nelle parole di Gesù (si veda Giovanni 12, 28) che nella mistica ebraica (si veda Zohar, Parte II, Sezione Bo, 42b) tale forma viene considerata tutt’uno con il Messiah. Anche le parole “Chi vede me ha visto il Padre” (Giovanni 14, 9) sembrano riferirsi sempre al Cristo e al Santo Nome di Dio come forma consacrata dal Padre per rivelare la sua presenza nel mondo.
[15] Giovanni, 6, 66.
[16] Ibidem, 6, 51.
[17] Ibidem, 6, 49 e 58.
[18] Ibidem, 6, 26 – 27.
[19] Ibidem, 6, 52.
[20] Ibidem, 6, 61 – 64. Anche in questo caso l’espressione Figlio dell’Uomo non si riferisce all’apparizione in terra del Cristo.
[21] Il mistero relativo al sacrificio del Cristo e alla sua risurrezione va meditato proprio in relazione al sacrificio della perfezione di quello stato primordiale – “prima che il mondo fosse” – che è destinato ad essere ristabilito integralmente dopo la fine dell’eone. Non va inoltre dimenticato come, nonostante il processo di disgregazione dello stato di perfezione iniziale, il Principio Supremo sia comunque rimasto del tutto inalterato, al di sopra di ogni dualità e determinazione; a ciò si riferiscono le parole del Vangelo sul Padre “che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sopra gli ingiusti” (Matteo, 5, 45). La mistica ebraica descrive questa mancata partecipazione del Principio Supremo alla manifestazione come un suo ritirarsi da ogni realtà fenomenica, psichica e persino celeste: la mistica luriana in particolare chiama tale processo Tzimtzum.
[22] I cabalisti ebraici alludono al processo dell’allontanamento dalla perfezione dello stato iniziale con la formula simbolica di Sheviràth hakelìm, ovvero la Rottura dei vasi. I vasi a cui si riferisce la formula sono i simbolici vasi destinati a raccogliere la luce della sovrabbondante Grazia divina. Interessante quanto, con particolare attenzione alla Scuola mistica di Safed, ne dice Gershom Scholem: “La dottrina della rottura [dei vasi] afferma che la luce divina, allorché irruppe nello spazio primordiale – dal quale lo spazio tridimensionale si sviluppò solo alla fine del processo – si dispiegò nei più svariati stadi, e apparve sotto i più svariati aspetti. (…). L’importante è che secondo questa dottrina, prima di ogni altro essere nello spazio primordiale ha origine, nel raggio dell’essenza divina, l’uomo primordiale, ’Adam Qadmòn.” In G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, 1993 Torino, p. 275.
[23] A tale ritorno allo stato di perfezione iniziale alludono le parole di Matteo 18, 3: “Se non vi convertite e diventate come i bambini non entrate nel Regno dei Cieli”.
[24] A tal riguardo sono chiare le parole: “Questa difatti è la volontà del Padre mio: che ognuno che vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna e lo risusciti nell’ultimo giorno.” (Giovanni 6, 40), come anche: “È venuto infatti il Figlio dell’Uomo a cercare e salvare la cosa perduta” (Luca 19, 10). In questa prospettiva possono essere meditate anche l’immagine della pecora smarrita e la parabola della zizzania e del grano (rispettivamente Matteo 13, 24 – 43 e 18, 10 – 14).
[25] Non possono che voler dire questo le parole di Matteo 10, 30: “Di voi poi pure i capelli sono tutti contati”.
[26] A tale elemento insostituibile Gesù allude con il simbolo del tesoro per il quale ogni altra cosa deve essere considerata di nessuna importanza: “Non fate tesoro dei tesori sulla terra, dove tignola e ruggine deturpa e dove ladri sfondano e rubano. Fate tesoro invece dei tesori in cielo, dove né tignola, né ruggine deturpa e dove ladri non sfondano, né rubano. Dove infatti è il tuo tesoro, lì è il tuo cuore.” (Matteo 6, 19 – 21); e anche: “Simile è il Regno dei cieli ad un tesoro nascosto nel campo che, dopo averlo trovato, un uomo nasconde [al passato nel testo greco, nda] e per la sua gioia va, vende tutte quante le cose che ha e compra quel campo” (Ibidem 13, 44). Il pericolo che corrono quanti limitano il proprio essere alla parte effimera viene invece espresso con l’immagine della Geenna.
[27] In I Corinzi 15, 44-46 San Paolo dice: “Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale”. Questa frase ha certo un profondo significato sull’Adamo terrestre, ma – come abbiamo visto – il Figlio dell’Uomo non è solo l’ultimo Adamo, ma anche il primo in assoluto, quanto meno dal punto di vista spirituale.
[28] Ritroviamo lo stesso concetto in Giovanni, 14, 28: “(…) Il Padre è più grande di me”.
[29] Ritroviamo questa concezione della memoria come via verso la conoscenza divina anche nella filosofia greca, specialmente in quella socratica e platonica, nonostante poi la moderna cultura europea si sia limitata ad una concezione tutta mentale, per non dire cerebrale, della conoscenza.
[30] Ovvero l’illusoria percezione per la quale le realtà sensibili e psichiche possono essere concepite come superiori ad ogni principio di carattere spirituale, se non le uniche di cui tenere conto (di tale inversione si è parlato in precedenza in relazione all’espressione “principe di questo mondo”). Alla collettiva e generale accettazione di tale prospettiva in terra si allude nei Vangeli con l’espressione “abominio della desolazione” del profeta Daniele (Matteo, 24, 15 e Daniele, 9, 27).